Fin dagli albori dell’agricoltura, l’umanità ha dovuto combattere muffe e infezioni da funghi che affliggono le coltivazioni più importanti per l’alimentazione. Alcuni ritrovamenti archeologici risalenti al IV secolo a.C. hanno documentato che gli antichi romani sacrificavano animali a Robigo, il dio della ruggine del grano, una malattia che può colpire sia lo stelo sia le foglie della pianta di questo cereale, con pesanti conseguenze per la resa dei raccolti.
Più di 2300 anni dopo, forse la battaglia contro questa famiglia di funghi patogeni potrebbe essere vinta, stando ai risultati di due studi pubblicati su “Science”, che hanno individuato meccanismi biochimici cruciali che permettono al fungo di eludere la risposta immunitaria della pianta.
A causare diversi tipi di infezioni del grano note con il nome comune di ruggine sono tre differenti specie fungine del genere Puccinia: P. striiformis f. sp. Tritici, che causa la ruggine “a strisce”, P. triticina, che causa la ruggine delle foglie, e P. graminis f. sp. Tritici, che causa la ruggine dello stelo. Quest’ultima è l’infezione più devastante per le colture, perché compromette la stabilità della pianta, causando la caduta dei semi sul terreno.
Gli esiti dell’infezione possono essere devastanti: si calcola per esempio che in una grande epidemia degli anni cinquanta, la ruggine abbia compromesso il 40 per cento del raccolto della corn belt degli Stati Uniti. Col passare dei decenni si è riusciti a selezionare varietà di grano resistente al fungo, ma nel 1999 in Uganda è stato isolato un ceppo fungino particolarmente virulento, chiamato Ug99.
L’evento ha spinto a riprendere una massiccia ricerca di nuove vie di immunizzazione delle colture. Intanto però la ruggine si è diffusa nuovamente: si calcola che in Africa il 90 per cento circa delle varietà di grano sia esposta all’infezione. Nel 2013, in Etiopia è andato perduto il 50 per cento circa dei raccolti. E sempre in quell’anno, in Germania si è registrato il primo evento d’infezione degli ultimi cinquant’anni, complici anche le temperature sopra la media.
Gli studi condotti negli ultimi decenni hanno chiarito che la lotta tra patogeno e sistema immunitario del grano si gioca tutta in un confronto tra gli effettori, cioè le proteine che il fungo usa come grimaldelli per scardinare le difese della pianta, e i recettori immunitari, preposti a rilevare la presenza degli effettori e ad attivare le difese immunitarie. Finora però è mancata la possibilità d’identificare gli effettori coinvolti nel processo d’infezione.
Nel primo studio, Andres Salcedo, della Kansas State University a Manhattan, e colleghi hanno analizzato un gran numero di variazioni genetiche naturali e indotte artificialmente nel fungo P. graminis f. sp. Tritici, identificando un elemento cruciale di infezione nell’effettore AvrSr35, che interagisce con il recettore immunitario del grano Sr35.
Nel secondo studio, Jiapeng Chen, dell’Università di Sydney, in Australia, e colleghi hanno studiato un particolare ceppo mutante della stessa specie di fungo in grado di evitare il riconoscimento da parte del recettore immunitario Sr50, codificato dal gene Sr50. Hanno così identificato l’effettore corrispondente, AvrSr50.
“Per la prima volta, è stato possibile effettuare uno studio genetico per identificare se e in che modo un fungo diffuso in tutto il mondo è in grado di superare la sorveglianza di Sr05, un gene per la resistenza alla ruggine che è stato introdotto in alcune varietà di grano ad alta resa”, ha spiegato Robert Park, professore dell’Università di Sydney e coautore del secondo articolo. “Questo ci permetterà di capire se una coltivazione di grano necessita di essere trattata o meno con un fungicida molto costoso, per evitare che l’infezione comprometta il raccolto”.
Più a lunga scadenza, secondo i ricercatori, queste nuove scoperte saranno fondamentali per studiare nuovi interventi di ingegneria genetica al fine di ottenere varietà di grano dotate di recettori immunitari più numerosi ed efficienti, in grado di riconoscere l’infezione fungina e bloccarla.
FONTE: http://www.lescienze.it