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Perino: “Una cittadella del pane a Torino per fare ricerca e dare prodotti migliori”

Una “cittadella del pane”, una specie di “università” dove non solo si sfornano pagnotte e grissini, biscotti e lievitati, ma dove si studiano i cereali e le farine e dove si conducono ricerche sui grani antichi, sulle loro proprietà, sui loro effetti nell’organismo di chi li consuma. «Un posto dove, accanto a un polo dedicato alla produzione e a uno spaccio per la vendita del pane, vi siano anche una biblioteca tematica, una sala per convegni e conferenze, una “scuola” per i miei fornai ma anche per gli esterni che vogliano saperne di più e magari, in un secondo momento, perfino un molino per garantire sempre la qualità e la fragranza delle farine macinate di fresco».

Per ora è un sogno nel cassetto, e il cassetto è quello di Andrea Perino, quarantenne panificatore torinese che dai suoi laboratori di via Monte di Pietà e poi di via Cavour ha compiuto in questi anni una mezza rivoluzione a base di lievito madre, farine non raffinate, recupero di cereali desueti ma più digeribili e ricchi di profumi e sapori complessi. Un sogno che potrebbe diventare realtà nel giro di un paio d’anni, e che Perino immagina sotto le arcate dell’ex Moi: «Ho già le piantine su cui metter giù una bozza di progetto». Se tutto dovesse filare liscio, il progetto potrebbe essere pronto entro fine anno e, al termine del 2019, potrebbe aprire l’“ateneo dei cereali”.

Perino, da dove nasce questo proposito?
«L’idea è di fare meno ma farlo meglio. Produciamo decine di tipi di pane ma si muore tutti di diabete: mi piacerebbe trasformare senza compromessi la vera materia prima, produrre pane con farine certificate, fare ricerca».

Non stupisce questo interesse in un produttore che nel retrobottega non ha solo forni, impastatrici, vasche di lievitazione e così via, ma anche un ufficio con una scrivania, un computer e soprattutto una libreria. Ma le conviene?
«Se mi limitassi a una logica puramente commerciale, avrei una strada semplice: prendi un capannone, ti espandi, ottimizzi la produzione e il business finisce lì. Ma c’è un’altra possibilità: puntare sulla qualità del prodotto, migliorarlo, farlo conoscere al pubblico e spiegargli come si possa vivere meglio mangiando cibi sani e buoni in minore quantità, proprio come fa l’oncologo Franco Berrino. La differenza è lì: nel primo caso investi in un’azienda, nel secondo investi sulla gente».

Perché le sta così a cuore questo aspetto?
«Perché è importante la formazione sia del produttore sia del consumatore. Quanti conoscono i gradi di raffinazione della farina? Chi sa il contenuto in sali minerali di una pianta? Potremmo fermarci al momento di vendere il pane, ma io voglio andare avanti e approfondire tutto il possibile intorno ai cereali, che sono sempre stati alla base dell’alimentazione».

Concretamente, che cosa vorrebbe ottenere?
«Mi piacerebbe creare un panificio con alle spalle un importante contributo di conoscenza, per esempio in materia di grani antichi su cui il professore bolognese di agronomia Giovanni Dinelli, tanto per citarne uno, conduce studi interessanti: non una moda, ma un’esigenza. Un panificio dove testare il livello di glicemia del consumatore a seconda del tipo di pane che mangia. Un panificio, ancora, dove a un cliente affetto da diabete si possa dire: “Ecco, questo pane lo può mangiare”. O dove, come ha suggerito l’ex Masterchef e medico nutrizionista Federico Ferrero, si selezionino le farine adatte per sfornare prodotti per celiaci».

Crede che un prodotto di questo livello, con i prevedibili costi della ricerca, possa avere un prezzo accessibile?
«Penso di sì. Si tratta di scegliere tra consumare molto cibo di bassa qualità a poco prezzo o preferirne uno chiaramente migliore mangiandone meno e pagandolo un po’ di più. Ma credo che la gente sia disposta a spendere di più se consapevole e culturalmente formata. Serve però molta educazione».

Ma che cosa c’è che non va nel pane bianco che si compra comunemente nelle panetterie?
«È in generale un pane più “povero” di sapori, più ricco in carboidrati, meno capace di conservarsi a lungo. Viene prodotto con farine troppo raffinate, private delle fibre proprie delle integrali e semintegrali che gli danno profumo e sapidità. Ma sono farine tendenzialmente inerti, che spesso richiedono l’uso di enzimi e miglioratori. Enzimi nel pane? Ma di che parliamo? Le nostre nonne come facevano il pane?».

Quindi lei vuole tornare ai tempi delle nonne?
«Sono convinto che il pane dobbiamo farlo “tornare indietro”, al periodo in cui era un alimento equilibrato che non ingrassava e faceva bene, e certificare la farina usata per produrlo. A che serve avere farine stabili perché sostanzialmente “morte”? I prodotti “veloci”, quelli che cambiano rapidamente, sono segno di vitalità: una farina che irrancidisce mi entusiasma, le muffe, del resto, attaccano le cose buone».

Per questo pensa anche a un luogo da dedicare interamente al lievito?
«Sì, il lievito naturale nasce dalla contaminazione dei microrganismi presenti nell’ambiente in cui si trova, perciò vorrei creare una zona fermentativa dove, per esempio, farlo lavorare da più mani».

Ha un modello cui si ispira?
«Mi affascina l’esperienza di Eugenio Pol, un guru della panificazione naturale che produce un pane straordinario con erbe che raccoglie lui stesso in Valsesia».

Crede che un progetto come l’“ateneo dei cereali” riscuoterà l’interesse dei torinesi?
«Penso che in città si possano coinvolgere molte persone, dagli esperti agli studiosi, dalle istituzioni di ricerca agli stessi ospedali».

Che cos’è per lei il pane?
«Qualcosa di sacro».

FONTE: http://torino.repubblica.it

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