Circa 14.400 anni fa un fornaio dell’attuale Giordania bruciò un disco di pane azzimo. Nel 2018, questo pane è stato trovato carbonizzato in un antico focolare nel Deserto Nero. Fino a quel momento si pensava che il consumo di pane fosse iniziato molto più tardi, dopo l’avvento della coltivazione del grano, circa 10.000 anni fa. Questa scoperta invece indica che i cacciatori-raccoglitori facevano il pane già molto prima di stabilirsi presso i campi coltivati. In breve, ha rivoluzionato le nozioni finora accettate sulle origini del pane e sul ruolo nelle nostre vite.
Nonostante la moda del XXI secolo del “basso tenore di carboidrati” e la crescente popolazione di chi deve — o vuole — evitare il glutine, pare che il pane sia tornato in voga. Può darsi che sia per la popolarità del The Great British Baking Show (talent show britannico per pasticceri amatoriali, NdT) o per la semplice azione di mescolare farina, acqua, lievito e un po’ di energia manuale per produrre un cibo gustoso e confortante. Dal cornbread dell’America meridionale al roti dell’Asia del sud, il pane è una presenza costante nei nostri piatti e nel nostro cuore. Ecco in che forma lo si può gustare in tutto il mondo.
Roti asiatico, on the road
Il roti (chiamato anche chapati, phulka, o maani) può sembrare semplice: un pane azzimo che può sostituirsi al piatto e alla forchetta per qualsiasi pietanza ci si mangi insieme. Ma il roti porta con sé una storia complessa fatta di primi passi di agricoltura e rotte commerciali, commercio di schiavi, schiavitù debitoria e migrazioni di massa. In India e Pakistan fa parte della dieta da secoli, e negli ultimi 500 anni di colonizzazione europea il roti ha seguito le comunità che sono state trascinate via dai loro Paesi natii nel sud dell’Asia. Oggi è un genere di prima necessità in Sri Lanka, Thailandia, Malesia e Indonesia e un prodotto importante per le popolazioni originarie dell’Asia del sud in Sudafrica e nei Caraibi.

Pane a doppia cottura in Sardegna
Già 3.000 anni fa i pastori sardi partivano per i pascoli in collina con i fagotti pieni di pane carasau. Conosciuto anche come carta musica per la sua sottigliezza, si conserva a lungo, anche per un anno. Recentemente gli archeologi hanno trovato tracce di questo pane — ancora oggi uno dei principali prodotti sardi — in molte delle costruzioni megalitiche sparse sull’isola.
È fatto di un impasto di grano duro con cui vengono realizzati sottilissimi dischi poi cotti in forno a legna. Non appena si gonfiano, assumendo una forma quasi sferica, le due parti del disco, ancora morbide, vengono separate, schiacciate e cotte una seconda volta fino a renderle molto croccanti.
Fare la pace con il man’oushe libanese
Sono molti i posti a Beirut, in Libano, dove poter gustare un man’oushe, una sorta di focaccia punteggiata di za’atar tradizionalmente servita al mattino. Ma se vi piace l’idea di una colazione in un luogo dalla storia particolare, dirigetevi verso il mercato contadino di Souk El Tayab.
È stato fondato nel 2004 da Kamal Mouzawak come mezzo per riunire le comunità divise e frammentate per etnia e religione dopo anni di conflitti, e anche per consentire in particolare alle donne di trarre profitto da questo prodotto regionale. All’insegna del motto “Make Food, Not War” (fate il cibo, non la guerra, NdT), questo mercato ha anche aiutato a mantenere vive antiche tradizioni culinarie, come la ricetta del vero man’oushe.
Cornbread del sud
Prima che la molitura industriale arrivasse nel sud degli Stati Uniti, all’inizio del XX secolo, nessuno usava la farina di grano né lo zucchero per il cornbread; la farina gialla macinata a pietra o ad acqua aveva già una consistenza e un sapore sufficienti, una volta mischiata con uova, burro, latticello e magari un po’ di agente lievitante.
Ma i nuovi mulini in acciaio macinavano più finemente il granturco, e il calore dei rulli lo deprivava del suo sapore, producendo una farina gialla insipida e friabile. Allora i cuochi iniziarono ad aggiungere del grano, perché la miscela fosse più compatta, e dello zucchero, per il sapore.
Altri, tuttavia, hanno declassato il risultato a “torta”. Oggi, se si vuole far partire una discussione nel sud, questo è un argomento che garantisce partecipazione e contraddittorio.
Il pane dei folletti tedesco
L’etimologia del pumpernickel tedesco è piuttosto buffa: “pumpern” significa “flatulenza” e “nickel” significa “folletto.” Si dice che il nome derivi dagli effetti del consumo di questo pane — un nome piuttosto ingrato, visto quanto è sostanzioso.
I tedeschi amano il pane. Di media ne consumano all’anno oltre 80 kg a testa, ma, sorprendentemente, non tanto pumpernickel. “La quota di mercato tedesco è piuttosto piccola,” spiega Bernd Kütscher, direttore dell’Accademia di Panificazione Artigianale Tedesca e dell’ente per il pane tedesco.
“Comunque il pane alla segale si trova in tutte le regioni. È l’ideale per la tipica cena tedesca, abbinato a prosciutto, würstel o formaggio”.
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