“Un capolavoro, di eleganza, di ingegnosità e di sapore”: così Riccardo Bacchelli in un articolo del 1958 sul Corriere della Sera aveva chiosato le parole con le quali, vent’anni prima, nel Mulino del Po il pane ferrarese era stato da lui gratificato del titolo di miglior pane del mondo. Se mettiamo da parte il sapore, che è soggettivo, non c’è dubbio che sull’ingegnosità e l’eleganza Bacchelli avesse ragione. Con il suo aspetto peculiare infatti la coppia o ciupéta, come affettuosamente viene chiamata dai ferraresi, sembra coniugare l’estetica di un aggraziato decoro da centro tavola con la raffinatezza del migliore artigianato alimentare. Ma quando e perché il pane ferrarese ha acquistato quella sua forma insolita e originale e cosa rappresentano quelle quattro croccanti, caratteristiche prominenze ritorte (curnìt), che si diramano dal nodo o nastro centrale?

Al riguardo sono state avanzate le ipotesi più disparate e inverosimili, trascorrendo con l’immaginazione dalle gambe delle ballerine ai boccoli di Lucrezia Borgia. Eppure la soluzione è sempre stata a portata di mano e sarebbe emersa da tempo, se il documento contenente la chiave interpretativa non avesse ricevuto fin dall’inizio una traduzione errata, riportata poi da storici e gastronomi senza alcun esame né verifica. Per comprendere i termini della questione dobbiamo partire dagli statuti di Ferrara del 1287, un insieme di disposizioni che testimoniano la cura e l’attenzione davvero speciali allora riservate alla lavorazione del pane. I fornai infatti, sotto pena di multe salate, erano tenuti ad osservare rigorose misure igieniche e produttive. Ad esempio, non potevano impastare in strada, né mescolare la farina di grano con altre farine. Inoltre erano obbligati a fare pani di giusto peso, ben cotti, perfino esteticamente presentabili e, per non sfuggire ai controlli, dovevano contraddistinguere il loro prodotto con un sigillo, uniformandosi in tal modo a una vera e propria procedura di rintracciabilità ante litteram.

Fra queste prescrizioni, evidentemente molto avanzate per il loro tempo, una in particolare ha sempre richiamato l’attenzione per il suo contenuto abbastanza curioso: “Statuimus quod pistores panes facere teneantur habentes oredellos et quod insimul non baxentur quando coquentur”, così tradotta dagli specialisti: “Ordiniamo che i fornai siano obbligati a fare i pani che abbiano orletti e che non si abbassino quando si cuociano”. All’apparenza non ci sarebbe nulla da eccepire: nel linguaggio maccheronico medievale la parola oredellus era effettivamente un diminutivo di ora e, se apriamo un dizionario latino-italiano, troviamo che il significato principale di ora è “margine”, “orlo”. Tutto chiaro, allora? Non proprio: che senso poteva avere un obbligo di fare il pane con gli orletti e, soprattutto, cosa c’entrano questi con la ciupéta? In realtà nelle traduzioni è sempre sfuggito un dettaglio importantissimo, e cioè che la parola ora fin dall’antichità classica era usata anche come termine tecnico nel linguaggio specialistico degli addetti alla navigazione, nel cui ambito designava la gomena, il cavo di ormeggio delle barche alla riva. Così, ad esempio, in Livio l’espressione oras resolvere aveva il significato di sciogliere gli ormeggi.