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La leggenda del pandolce genovese e il suo rito natalizio

Genova – È il re della tradizione dolciaria genovese, una prelibatezza che, secondo la leggenda, sarebbe nata nel lontano ‘500 su volere dell’allora doge Andrea Doria, ancora oggi uno dei prodotti liguri più famosi – e imitati – al mondo. Ma forse non tutti sanno che il mito del “pandôçe”, il pandolce, non riguarda soltanto il modo in cui lo si prepara, ma anche quello in cui lo si mangia.

A confermarlo è Stefania Mantero, titolare della storica e omonima pasticceria di Sampierdarena, uno degli ospiti d’onore del martedì “zeneise” che A compagna ha dedicato proprio ai dolci tipici genovesi: «Tra i nostri “piatti forti” c’è sicuramente il pandolce, anche se la Liguria ha una vasta e antica tradizione dolciaria, basti pensare alla sacripantina, ai canestrelli, o ancora ai quaresimali. Ma il pandolce resta uno dei più noti e apprezzati, e nelle feste di Natale non può mancare sulle tavole dei liguri, nella versione alta o in quella bassa».

La scelta, prosegue Mantero, è legata principalmente ai gusti: «Il pandolce alto è un po’ più morbido rispetto al prodotto frolloso che è quello basso, lievitato naturalmente e meno ricco di ingredienti: assomiglia a una torta lievitata arricchita con pinoli, arancio e cedro, e solitamente viene preferito da chi non ama i dolci troppo ricchi. Il pandolce basso, invece, è molto più elaborato, contiene un’alta quantità di burro e zucchero e ai canditi classici vengono aggiunte anche ciliegie rosse e nocciole».

Una ricetta, quella del pandolce, tramandata di generazione in generazione da mamme, nonne e in certi casi bisnonne che iniziavano a prepararlo nelle settimane precedenti al Natale per dare il tempo all’impasto di lievitare e cuocerlo poi sulla cucina a legna o portarlo al panettiere di quartiere perché lo cuocesse nel suo forno. E una volta pronto, tradizione voleva che gli venisse “reso onore” nel modo giusto: «C’è un modo preciso di gustare il pandolce – sorride Mantero – Innanzitutto, a portarlo in tavola, con un rametto d’alloro al centro, deve essere il più giovane della famiglia, che lo deve consegnate al capofamiglia. Quando il capofamiglia inizia ad affettarlo, la donna di casa recita una poesia di Natale. A quel punto inizia la distribuzione delle fette, partendo proprio dalla mamma e andando in ordine decrescente d’età».

E il “rito” non si conclude con il pranzo di Natale, perché la tradizione richiede che del pandolce vengano conservate due fette, una da donare «al primo mendicante che viene a bussare alla porta – conclude Mantero – L’altra da portare in tavola il 3 febbraio, giorno di San Biagio, protettore della gola: ogni membro delle famiglia deve averne un pezzetto e mangiarlo per invocarne, appunto, la protezione».

FONTE: http://www.ilsecoloxix.it

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