Piccolo è bello. Montano è bello. Marginale è bello, potremmo osare dire per andare controcorrente rispetto a una narrazione – spesso, ahinoi, suffragata dalla realtà dei fatti – che parla di spopolamento, morte dei piccoli borghi, isolamento sociale ed economico della montagna italiana.
C’è però un gruppo di giovani che, invece di stare a guardare o addirittura fare le valigie e seguire le sirene metropolitane, si è rimboccato le maniche e ha saputo attualizzare il retaggio storico, culturale e artigianale delle “aree marginali” per creare una nuova attrattiva, andando addirittura a ripescare le radici della lingua italiana.
Vittoria, Francesco e Andrea hanno fondato tre anni fa Happennino, un’associazione che ha proprio l’obiettivo di “fare succedere qualcosa in Appennino” (to happen significa “accadere” in inglese). Fra le iniziative più interessanti c’è proprio Il Pane di Dante. Scopriamo insieme a loro di cosa si tratta.

In che modo Dante è legato all’arte della panificazione?
Più che all’arte della panificazione, Dante è legato profondamente al pane, il “suo” pane, un pane “sciocco”, senza sale, tipico della zona di Firenze. A quel pane Dante continuerà sempre a guardare quando, dopo essere stato esiliato da Firenze per non farvi mai più ritorno, si ritroverà a conoscere e masticare “lo pane altrui”, come lo ammonisce Cacciaguida nella Divina Commedia (“Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui”, XVII Canto del Paradiso).
Ma proprio nel pane, nei bisogni più elementari, “volgari”, Dante sente la spinta e la necessità di immaginare una Nazione unita sulla base di un’unica lingua da parlare e masticare (“… il nuovo italiano, che farà nuovi gli Italiani, togliendo le sofisticazioni del latino e delle altrui parlate, farà tutti – e tutti dico – parlare; farà come quel pane orzato che, moltiplicato nei Vangeli, satollerà le migliaia e n’avanzeranno le sporte piene. …Pane di scienza, pane di materia e pane d’anima…”, Convivio). Ecco quindi che per Dante il pane diventa metafora di unità nazionale, la stessa che vogliamo celebrare con la nostra iniziativa.
Pensate che la rinascita dell’Appennino e delle zone montane, spesso spopolate e dimenticate, possa passare anche attraverso il recupero delle antiche tradizioni artigianali?
Le tradizioni sono certamente l’anima storica delle zone montane e dell’Appennino, luoghi in cui c’è una profonda sapienza artigianale e umana. Ma le tradizioni devono sapersi contaminare con la contemporaneità di nuovi linguaggi, prodotti, format, contenuti. Devono soprattutto saper parlare alle nuove generazioni, che altrimenti difficilmente le troveranno appetibili. Un esempio è quello dei barber shop: un mestiere tradizionale, come quello del barbiere, si è evoluto profondamente – anche grazie al contributo di alcune (ben fatte) campagne di comunicazione – e oggi fare il barbiere è cool. Troppo spesso l’Appennino è oggetto di una narrazione nostalgica, rivolta all’indietro, quando ci sono invece spinte ed energie creative molto forti, che hanno però bisogno di canalizzarsi in proposte e modelli di racconto e fruizione più contemporanei, più digitali e anche più internazionali, per non continuare a guardare solo al proprio ombelico.
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